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PERSONA

di

Ingmar Bergman

8 - 13 gennaio 2008, Teatro Spazio Uno - Roma

18 dicembre 2008, Officina Giovani - Prato

25 - 27 settembre 2009, Sala Harmonia Mundi - Roma

 

PERSONA

(note di regia)

 

Essere o rappresentare, vivere la vita o recitarla.Questo il tema portante di Persona (che in latino significa Maschera) di Ingmar Bergman. La sete di autenticità porta l’attrice Elisabet Vogler (Cristina Del Sordo) a smettere coscientemente di parlare, perché ogni parola è menzogna, ogni gesto un inganno. Per farle superare la crisi depressiva, la dottoressa che l’ha in cura la manda in una casa al mare con l’infermiera Alma (Miriam Spera), generosa, aperta, solare, insicura e fiduciosa. Tra le due donne nasce un’amicizia pericolosa, perché Alma, nel suo incessante monologare, si lascia andare a confidenze, parla senza freno dei suoi sogni e delle sue paure, mentre Elisabet migliora mano a mano, nutrendosi proprio dell’autenticità sofferta della vita di una donna coraggiosamente imperfetta, cui lei oppone il profilo ostinato e il riso infrangibile di chi la vita sa solo immaginarla, preordinarla, recitarla come un copione. Due donne che partono da premesse lontanissime, diverse per cultura, estrazione sociale, mestiere, attitudine nei confronti della vita, che si ritrovano alla fine ad essere specchio l’una dell’altra, ad assomigliarsi, a confondersi, ad annullarsi. 

Ermetico e dissonante, eppure profondamente umano, questo testo è tra i più significativi della poetica di Ingmar Bergman, che in esso esplora i territori misteriosi della depressione e della creazione artistica, dell’arte di recitare e dei fili inestricabili di un incontro umano, in cui il giudizio si arrende ad una profondissima pietà.

 

Rosario Tronnolone

ne hanno scritto...

ALMA ED ELISABET, DUE MASCHERE DELLA STESSA PERSONA

 

Nel capolavoro di Ingmar Bergman, riproposto in teatro, il ritratto di due donne, l’una

perfetta antitesi dell’altra: un’infermiera, positiva e appagata, un’attrice sempre più

schiacciata dall’angoscia di esistere

Nella cornice romana del centro “Harmonia Mundi”, a pochi metri dalle suggestioni del Colosseo, l’associazione culturale “Come in uno specchio” ha di recente portato in scena “Persona”, trasposizione teatrale dell’enigmatica  opera cinematografica di Ingmar Bergman. L’adattamento – curato, insieme alla regia, da Rosario Tronnolone – riesce nel difficile compito di mantenere il misterioso fascino della pellicola originaria, finendo per attrarre lo spettatore in un vorticoso viaggio psicologico e introspettivo. L’intenzione è quella di rispettare in modo piuttosto fedele l’impianto del celebre autore, mettendosi con intelligenza al suo servizio. La trama, apparentemente essenziale, nasconde complessità e ambiguità difficilmente risolvibili in maniera univoca. Nel testo emerge l’impronta tipica di Bergman: il chiaro intento di spiazzare lo spettatore, il voler indurlo a riflessioni ostiche, estreme, che mal si conciliano con delle verità dogmatiche e preconfezionate. Attraverso il dipanarsi della sceneggiatura viene svelato un puzzle psicanalitico composito e controverso, la cui sottile e certosina ricostruzione è necessaria al fine di tendere ad una visione nitida del significato globale dell’opera. In quest’ottica, ogni singola parola pronunciata diventa preziosa e dirimente. Alma è una giovane infermiera che assume il compito di accudire Elisabet Vogler, una famosa attrice che nel mezzo della rappresentazione dell’Elettra ha smesso improvvisamente di parlare. All’inizio le due protagoniste appaiono come perfetta antitesi l’una dell’altra. Non è solo il profilo socioculturale e professionale a dividerle. L’infermiera ostenta tranquillità e appagamento, una positività un po’ ingenua, un senso di pace ascrivibile a un progetto di vita lineare. Le sue scelte sembrano forse precostituite, ma hanno il vantaggio di evitarle turbamenti. Elisabet è al contrario una donna ormai schiacciata dall’angoscia dell’esistere: quella che per molti altri sarebbe una vita realizzata e desiderabile è divenuta per lei una prigione asfissiante. Nemmeno il rifugio della recitazione è più in grado di alleviare le sue pene. Di qui il mutismo pervicace. Elisabet non è malata, né nel fisico, né nella psiche; ha deciso deliberatamente di sottrarsi al mondo, finanche rifiutandosi di comunicare con esso. Ella patisce uno struggimento interiore che non trova soluzione: è vittima dell’immagine di sé, che la morale le impone, di una proiezione alla quale sente di non poter venir meno, di un’apparenza che la costringe ad un ruolo costantemente dissonante rispetto alla sua indole. Quello dell’attrice è un sogno disperato, il tormento di chi vuole essere e non sembrare di essere, di chi si rende conto dell’abisso che separa ciò che si è per gli altri da ciò che si è per se stessi. A diventare insostenibile è proprio il peso della “maschera” pirandelliana, alla quale fa riferimento lo stesso titolo dell’opera attraverso il significato latino del termine “persona”. È messa in scena la problematizzazione della natura umana, eternamente divisa tra il bisogno viscerale di trovare una forma autentica di espressione e la necessità di rappresentarsi in maniera funzionale alle esigenze contingenti. L’idea di mettersi a nudo, con le proprie debolezze, è terrorizzante. E così ogni parola suona falsa, ogni comportamento artefatto. Stanca di fingere, in scena e nella vita, il silenzio sembra l’unica arma che rimane ad Elisabet per non mentire. Ma la realtà è prepotente. E non è possibile evitare che dei suoi scampoli sfuggano al controllo, s’insinuino e la destabilizzino. Beffardamente, anche quell’ultimo tentativo di eludere qualsiasi ipocrisia, si rivelerà solo una nuova parte da interpretare. Esplicativo l’intervento della dottoressa che l’ha in cura: “Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso. Meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire. Oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o fare gesti non voluti. Devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo, finché essa non perda interesse, e abbandonarla, così come sei abituata a fare, passando da un ruolo all’altro”. Nel prosieguo della pièce si fa sempre più chiaro il continuum esistente tra le due donne, come se esse fossero due facce, ovvero due maschere, della medesima persona. Da un lato un ostinato ermetismo quale rifugio consapevole, dall’altro una verbosità, per lungo tempo frenata, che trova finalmente l’agognato ascolto. Si scopriranno essere due differenti reazioni allo stesso mal di vivere. Pur partendo da prospettive opposte, le protagoniste approdano ad un punto di arrivo comune, inteso come profonda e reciproca compenetrazione dei drammi che le accomunano. Alma subisce in maniera crescente il pericoloso fascino di Elisabet e – con incanto e amorevolezza – si adopera per trovare il modo di inserirsi nella sua estatica meccanicità. Il protervo mutismo dell’attrice viene letto da Alma come tacita comprensione. Da una serie di confessioni e confidenze, emerge una versione inaspettata dell’infermiera: fragile, vulnerabile, inquieta, passionale e combattuta. Una veste inedita che apre definitivamente le porte ad un’istrionica inversione di ruoli. Nella donna si riaffacciano le imperfezioni, i segreti e gli angustianti dubbi repressi dalla razionalità. Punto di snodo nello sviluppo drammaturgico, il momento in cui Alma realizza che la fiducia accordata è stata tradita. In realtà, la scorrettezza della Vogler, così come la sua taciturna reticenza, non rappresenta null’altro che il rifiuto di gettar via l’ennesima maschera, indispensabile ad evitarle i temuti coinvolgimenti emozionali. Ma quel silenzio è ormai assordante e inaccettabile. Nel sovvertimento prodotto dagli eventi, adesso è l’infermiera a portare su di sé tutto il peso dell’incomunicabilità. In questo quadro rinnovato, dove è lei a ritrovarsi sotto giudizio, s’innesca una chiusura di rimando, resa ben visibile mediante l’espediente scenico degli occhiali da sole: una simbolica forma di protezione, un filtro utile a preservarla. L’attrazione morbosa si tramuta in profonda disillusione e, più tardi, nel delirio e nell’orrore di specchiarsi perfettamente nell’altra, fino ad annullarvisi. Nella parte conclusiva del suo ossessivo monologo, la metamorfosi di Alma diviene completa trasfigurazione nell’alter ego. Un’osmosi significativa, in cui la donna, calandosi integralmente nei panni dell’attrice, riporta quest’ultima alle sue responsabilità, ripercorrendo in parallelo anche le proprie. Sono ora del tutto chiari i rischi e le insidie di quel rapporto, fonte di un amore impossibile, disumano, capace persino di annichilire. In maniera simmetrica, Elisabet – che in prima battuta ha studiato quella creatura genuina con un distacco e un’irrisione più simulati che reali – si ciba, suo malgrado, della spontaneità di Alma come di una linfa vitale. Un nutrimento di cui diventa cosciente e di cui afferra l’importanza solo sul finale, quando il “vampirismo” da figurato diventa addirittura manifesto. Vittima e carnefice, dopo essersi confuse e mescolate, combaciano fino a non distinguersi più. Emblematica l’unione dei due volti messa in scena dal regista, fedelmente ripresa dalla memorabile sequenza cinematografica. La riduzione teatrale conserva i tratti della sperimentalità e dell’innovazione che furono propri del film. La regia dimostra di saper calibrare, con coraggio e padronanza stilistica, sapori drammatici, surreali e meta-teatrali. Il sapiente uso delle luci, curate da Luisa Monnet, sottolinea abilmente le oscillazioni e l’evoluzione interiore delle protagoniste. È un iter sofferto quello delle due donne, che vede via via “illuminarsi” le zone più recondite della loro personalità. Sfaccettature conflittuali – e perciò soffocate – ma che affiorano inevitabilmente come parte integrante della loro realtà. Contrasti dell’anima, amplificati – attraverso lo stridore disarmonico degli archi – dalle evocative musiche di Alfred Di Rocco. Il palcoscenico, volutamente scarno, permette di eliminare ogni artificio superfluo e di focalizzarsi primariamente sui personaggi e le relative dinamiche: l’individuo è al centro dell’opera. La coerenza narrativa di scene e costumi (rispettivamente di Serena Clementini e Lucia Costanzo) sembra riprendere i toni del chiaroscuro di Bergman e accompagnare allegoricamente il racconto. Il bianco, metafora del candore di Alma, nella prima parte si distingue con nettezza dal mondo tenebroso dell’attrice. Successivamente si dissolve invece nelle tinte buie e scabrose di quell’intimo universo che l’infermiera – impaurita e sconvolta – ritrova dentro di sé. Ancora una volta la sovrapposizione dei due vissuti si dimostra totale. Cristina Del Sordo, intensa ed espressiva nella parte di Elisabet, riesce a “toccare segreti, senza parole”, cogliendo il senso intrinseco della sceneggiatura affrontata. Così come Miriam Spera, che – nel ruolo di Alma – mantiene costante la tensione scenica, portando avanti un inarrestabile monologo in cui ha modo di mostrare tutto il suo straordinario talento. Convincente, nelle vesti della dottoressa, Carolina Zaccarini, la quale funge quasi da deus ex machina, come fosse un narratore esterno che aiuta lo spettatore a districarsi nei misteri dell’anima. E proprio della dottoressa è la chiosa finale: “Penso sia necessario essere profondamente infantili per avere la forza di essere artisti in un’epoca come la nostra”. Un sigillo che conferma la possibilità di leggere “Persona” anche come una considerazione sulla funzione dell’arte. Una chiave interpretativa metateatrale, alternativa a quella universale, che – partendo dall’annoso dilemma del vivere la vita o recitarla – ci parla della finzione come mera sopravvivenza e rimanda alla purezza puerile come unico lasciapassare per la vita vera. Alma, che all’inizio riconosce l’importanza dell’arte recitativa – soprattutto per chi non sa affrontare da solo i suoi problemi – finirà invece, a causa di Elisabet, per diffidare di essa, ritenendola distante dai comuni mortali, e quindi dalla cruda realtà. Viene subito alla mente l’ammonimento di Albert Camus che parlava della necessità per l’artista di non astrarsi né dalla bellezza né dalla società. E di quanto sia fondamentale il contatto con il pubblico e la materia. È il teatro che parla del teatro. Il teatro come illusione e inganno. Il teatro che si autoanalizza dall’esterno, come risulta evidente quando la protagonista scende dal palco per diventare lei stessa spettatrice. Ma il teatro è anche un modo per protendersi verso il trascendente. Come in molti dei suoi lavori, Bergman non tralascia la problematica religiosa. Il silenzio, che incombe perenne, sembrerebbe lasciare aperte le porte sia alle ragioni del dubbio sia a quelle della fede. Il tema del bambino respinto incarna però la difficile relazione tra il divino e l’umano, ovvero un rapporto di amoreodio dal quale scaturisce il drammatico isolamento metempirico dell’individuo. Il travaglio e l’inquietudine sono a questo punto conseguenze prevedibili. La questione esistenziale rimane il tema cardine dell’opera. Ad essa si ricollega la poetica del nulla, una visione filosofica proposta in modo ricorrente dal regista svedese. E che nella fattispecie si materializza nel terrore dell’uomo quando egli scopre come il vuoto alberghi inesorabilmente in sé. Sotto questo profilo, si comprende meglio il concetto stesso di maschera: il volto è la persona, ma al contempo la sua negazione, il nulla. E non è casuale se, dopo che tutto è stato detto, sarà proprio “nulla” la prima parola che Elisabet tornerà a pronunciare. L’attrice ripartirà esattamente dalla vacuità nella quale è sprofondata, da quell’azzeramento dell’etica che ha costituito la premessa per la fuga dai suoi limiti. L’affannosa ricerca della verità non può avere l’esito sperato. All’infermiera, che ha trovato la forza di mostrare senza veli la sua parte più torbida, è affidato il compito di indicare una possibile via d’uscita. A differenza della Vogler – che fa dello scherno e dell’austerità una disperata barriera tra lei e lo spazio circostante – Alma “vuole amare”, in primis la vita, venendo a patti con le sue manchevolezze. L’accettazione dell’imperfezione, del fallimento e del dolore si rivela una scelta salvifica. In ogni caso, il ruolo rimane uno strumento sociale ineluttabile, anche se non sarà mai in grado di raccontarci integralmente. L’essenza intima del testo rappresentato è allora rintracciabile nello sfogo più lucido di Alma: “È veramente importante non mentire, dire la verità e trovare sempre le parole giuste? Si può vivere senza parlare per non dire nulla? Si può mentire trovando delle spregevoli scuse? Non sarebbe meglio abbandonarsi alla pigrizia, all’ipocrisia? Forse... si diventerebbe persino migliori se ci si accontentasse di essere come si è”.

Alessandro Sanapo

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